Volatilità di mercato e volatilità di cash flow: due cose completamente diverse.

Nel 1989 Robert Shiller, premio Nobel per le scienze economiche nel 2013, pubblicò un libro “Market Volatility” (una delle salve contro l’allora inespugnabile castello della teoria dell’efficienza dei mercati) che fece scalpore. Un decennio e mezzo più tardi la tesi fondamentale di Shiller chiarì le mie idee riguardo a una grossa mancanza nel reporting odierno sui portafogli degli investitori.

La tesi di Shiller si può riassumere molto brevemente: i mercati, pur non essendo completamente senza ratio, sono tuttavia molto meno “efficienti” di quanto non si sostenga, e lo prova il fatto che i prezzi (di azioni, obbligazioni, materie prime e case) sono sempre molto più volatili delle condizioni fondamentali sottostanti. Nonostante quest’osservazione oggi sia una cliché, siamo ancora ben lontani dal tirarne le conseguenze fino in fondo.

Vediamo un esempio. L’indice azionario americano S&P 500 tra il 31-12-1970 ed il 31-03-2016 ha avuto il seguente andamento1:

Figura 1

sp 500

Come statistica fondamentale useremo i dividendi sottostanti (pagati nei 12 mesi precedenti; si potrebbero usare altre variabili, come i guadagni, il free cash flow, l’EBITDA, e così via)1

Figura 2

sp 500 divs

La differenza nella volatilità delle due serie dovrebbe essere evidente. Per assicurarci ecco altri due grafici; il primo è semplicemente la sovrapposizione delle due serie mentre il secondo rappresenta l’evoluzione del rapporto dividendi/indice (dividend yield)1:

Figura 3

sp500 e divs

Figura 4

sp 500 divs rendimento

Infine, esaminiamo i movimenti delle due serie nelle circostanze temporali più significative tra le due date sotto esame. Tabella 1 descrive i cambiamenti in percentuale durante i periodi indicati1: 

Tabella 1

tabella sp500 e divs vari periodi

A guardare queste cifre si direbbe che le due serie non siano neppure correlate! Ma accontentiamoci di osservare semplicemente la stabilità dei flussi rispetto ai prezzi e di trarne la domanda che sta alla base della mancanza nei reporting odierni a cui ho fatto riferimento: perché i gestori non mostrano mai l’evoluzione temporale dei flussi di un portafoglio?

Teniamo presente che l’analisi svolta fin qui non si applica solamente all’S&P 500 o ad indici azionari di qualunque genere, ma anche ovviamente a tutte le attività e posizioni in un portafoglio: obbligazioni e azioni singole, ETFs, fondi d’investimento, hedge funds, private equity. Se un portafoglio consistesse esclusivamente di oro o materie prime, allora i suoi flussi sarebbero negativi, fatto che dovrebbe farci pensare due volte prima di gettarci a testa bassa in quelle posizioni.

Oltre tutto, avere a disposizione un’evoluzione dei flussi di portafoglio faciliterebbe di parecchio la discussione con i clienti in momenti di mercato non ideali. Anzi, ne andrebbe a beneficio di tutti in quanto tranquillizzare gli animi e usare la testa in queste circostanze è di gran lunga la cosa migliore da fare.

Pensando ad alta voce, e senza dati alla mano, posso solo dedurre che la nostra psicologia di comprare e vendere pezzi di carta piuttosto che acquisire e costruire lentamente flussi di cassa a lungo termine faccia parte del nostro DNA. Per quel che riguarda l’industria del risparmio gestito, è anche chiaro che per loro sia più conveniente economicamente “strullichiare” (termine siculo) gli animi dei clienti che non calmarli e condurli per mano verso il raggiungimento dei loro obiettivi.

-Note-
1. Dati trimestrali.

-Fonti fotografiche-
1. https://www.pandadoc.com/blog/2015/11/how-to-write-amazing-monthly-reports-for-clients-using-pandadoc/
2. Figura 1-4 e Tabella 1: Bloomberg, Orthos Advisory AG.