di Roberto Toninello (*)

Negli anni settanta apparvero i primi microprocessori. Quella roba che permette il funzionamento del computer che state utilizzando per leggermi o del telefonino che tenete continuamente tra le mani.
In quegli anni ero un tecnico dell’elettronica industriale. Macchine automatiche.
Avevo meno di trent’anni e improvvisamente scoprii di essere diventato vecchio.
Il mio mestiere, che solo pochi anni prima poteva essere definito d’avanguardia, era in via di superamento. Trasformato in un mix tra elettronica e informatica.
Così un giorno, mentre ero da un gelataio davanti ad una banana split, decisi che avrei dovuto cambiare mestiere. Ero entrato anch’io nell’era della precarizzazione del lavoro.
Alla fine degli anni ottanta, dopo altre esperienze lavorative, mi ritrovai ad organizzare corsi di formazione per giovani disoccupati. Da un lato c’erano le imprese che richiedevano nuovi lavoratori, dall’altro c’erano giovani inesperti.
I corsi che dovevo organizzare erano abiti su misura. Cuciti sulla base dello specifico profilo professionale richiesto dalle imprese.
Per esempio un corso per palombari a Rimini, un corso per traduttrice in lingua madre per le imprese esportatrici nel parmense, corsi di informatica a Forlì, corsi per gli ipermercati a Modena, un corso di restauro di ceramica artistica a Faenza, corso per azienda tessile nel ferrarese. Organizzavo una trentina di corsi ogni anno destinati ad oltre cinquecento giovani diplomati disoccupati.
L’anno dopo i corsi sarebbero stati diversi oppure simili ma realizzati in città diverse.
In questo nuovo lavoro la prima cosa che feci fu quella di demolire le strutture fisse che si erano costituite in quell’istituto di formazione. Se i corsi erano su misura ed erano dove le imprese si sviluppavano, da Rimini a Piacenza, allora anche l’organizzazione logistica e i docenti dovevano essere adattati di volta in volta a quelle necessità.
Era un esempio concreto dove la parola flessibilità coincideva perfettamente con la creazione di nuovo lavoro.
Pur essendo in quegli anni protagonista del cambiamento del mondo del lavoro, non avevo ancora capito la profondità di quel cambiamento.
Poi un giorno sulla scrivania del mio capo vidi una cartellina con dentro una ventina di pagine. Sulla copertina spiccava il titolo: Gestione dinamica del patrimonio.
Chiesi cosa fosse. Il mio capo mi rispose: è un prodotto.
È un prodotto???
Per me che venivo dal settore delle macchine automatiche il termine “prodotto” coincideva con qualcosa che si tocca, qualcosa che fa qualcosa. Una lavatrice, un televisore, un telefono, un frullatore, un orologio, un treno, una scarpa, un pomodoro. Anche una ciabatta ha l’onore di essere un prodotto. Ma come si fa a chiamare “prodotto” venti fogli di carta?
Visto il mio stupore il mio capo mi spiegò che in quella cartellina c’era la metodologia per gestire il patrimonio immobiliare dei comuni. Per valorizzare il patrimonio. Rivedere gli affitti, contabilizzare le manutenzioni, ottimizzare gli utilizzi.
Quelle venti paginette producevano un reddito.
In quel momento presi consapevolezza che eravamo entrati nella società dei servizi. Eravamo nell’era post industriale.
Quando chiesi il valore di vendita di quel “prodotto” venne la seconda sorpresa della giornata. Il “prodotto” non costava niente. Il suo valore era una percentuale dei risparmi realizzati nei primi tre anni di applicazione.
Nel mondo dei servizi tempo di lavoro e produzione di reddito non coincidono più in modo proporzionale ma in modo casuale. Se quel prodotto lo applichiamo al comune di Roma potremmo vivere di rendita sino alla fine dei nostri giorni, se lo vendiamo in un comune ben gestito produrrà pochi spiccioli. Indipendentemente dal numero di occupati che servono per la sua realizzazione.
Vi ho raccontato questa storia vecchia di trent’anni per diversi motivi.
Prima di tutto perché nel nostro paese manca ancora la cerniera tra disoccupati e mondo del lavoro.
I corsi di formazioni che organizzavo erano questa cerniera. Erano gli anni ottanta. E oggi quella cerniera non l’abbiamo ancora realizzata su larga scala.
Trent’anni buttati.
I disoccupati sono figli di nessuno. Continuiamo a preoccuparci dei diritti degli occupati e del reddito dei pensionati ma non trasferiamo adeguate risorse verso i disoccupati.
Poi questa storia parla della precarizzazione del lavoro.
I cambiamenti dei prodotti, dei consumi, delle tecnologie generano l’instabilità delle imprese, del lavoro.
Pensiamo che l’automazione distrugga il lavoro. Paradossalmente però ci sono più occupati oggi rispetto a quando nei campi non c’erano i trattori e nelle fabbriche non c’erano i robot.
Semplicemente oggi facciamo altro.
Questo “altro” che facciamo è meno concreto e palpabile di quello che facevamo come braccianti agricoli o operai dell’industria.
Simbolicamente siamo diventati tutti figli di quelle venti paginette di metodi e procedure della Gestione Dinamica del Patrimonio.
In Italia dei ventitré milioni di occupati solo sette milioni sono agricoltura, industria e costruzioni. Tutti gli altri lavorano nei servizi.
Allora come rispondiamo al problema del lavoro?
Prima di tutto con più credito alle imprese. Se mi fossi occupato della Gestione Dinamica del Patrimonio avrei dovuto lavorare due anni prima di vedere un soldo. Se vado in banca pensate che mi finanzino? Non compero macchine, non compero capannoni, non compero appartamenti. I soldi mi servono solo per portare avanti il mio lavoro. Lavoro che produce un reddito ma che non è immediatamente misurabile. Allora zero prestito, uguale zero lavoro.
Poi serve la cerniera. Imprese, banche, scuola, formazione, disoccupati vanno collegati. I servizi verso i disoccupati vanno costruiti. Abbiamo perso trent’anni. Oggi dobbiamo correre. Dovremmo correre, invece siamo fermi. A parlare di voucher.
Poi servono infrastrutture. Banda larga. Ma non solo.
Il canale di Suez è stato raddoppiato. Le navi che devono scaricare merci per l’Europa settentrionale si fermano nei nostri porti o vanno altrove? Vanno altrove. Se scaricano nei nostri porti, poi come trasportiamo quelle merci in Europa? Siamo carenti di ferrovie. Soprattutto al sud. Ma siamo ancora qui a discutere della Torino Lione e del collegamento ferroviario tra Genova e il Piemonte.
Saremo pronti tra vent’anni. Forse.
Servirebbero investimenti pubblici. Ma se oggi decidiamo un investimento il nostro sistema istituzionale ci permetterà di realizzare quel progetto tra dieci o venti anni.
Dovremmo riorganizzare lo Stato. Questo è inadeguato ai tempi del mondo.
La mia banana split si sta pericolosamente trasformando in un manifesto per il lavoro.
Forse anch’io sono caduto nella trappola dove tutti parlano di lavoro e non realizzano niente.
Ma in fondo siamo nella società dell’informazione.
Nonostante l’età sono in linea con i tempi. Bla bla, poi i disoccupati restano tali e quali e ci daranno l’occasione per un’altro bla bla.

Ciao a tutti

-Notes-
(*) Roberto Toninello.

Tra trentatré anni ne compie cento. Non sa ancora cosa farà da grande. Nella sua vita si è sposato due volte. Ha cambiato casa sei volte e ha fatto sette mestieri. Tutti diversi. Macchine automatiche, formazione professionale, servizi informatici, camion dell’immondizia, pasticceria. Gli piace la fisica delle particelle, la musica, la pittura e il non far niente.

-Altre letture-
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 -Photo Sources-
Cover: http://www.instructables.com/id/real-good-banana-split-costume/