di Roberto Toninello

Questa mettetela nella cartellina piccole storie sotto l’ombrellone.
Non fatevi ingannare dalle prime righe. La storia non è quello che sembra.

E così dopo trentacinque anni sono qui. I muratori del cimitero sono sull’impalcatura e stanno smontando la lapide che chiude il tombino.
I tombini non mi sono mai piaciuti. Mi sono sempre sembrati degli scaffali di un magazzino di cadaveri. Più gentilmente sarebbe meglio dire magazzino di salme.
Già, il nostro corpo senza vita cambia nome a seconda delle circostanze.
Salma per le pompe funebri. Caro estinto per i santini dell’ultima cerimonia. Quello che per la polizia è un cadavere diventa “il corpo” durante la messa di suffragio, forse per distinguerlo dall’anima che è eterna.
È tempo di riesumare la bara di mio padre. La licenza del tombino è scaduta.
L’avevo lasciato un pomeriggio di trentacinque anni prima.
Ero accanto a lui mentre il respiro affannato e veloce si trasformava in lento e calmo.
Nella sua drammaticità è stato un momento di cui conservo un buon ricordo.
Sono contento di essere stato li.
Sono invece meno contento di essere qui oggi.
Nel momento in cui gli operai estraggono la bara dal tombino si sentono strani rumori. Nella bara qualcuno bussa.
Si svitano le viti. Si dissalda il coperchio di zinco.
Paff, miracolo. Mio padre si drizza in piedi ed esce dalla bara col suo bel vestito grigio fresco lana, camicia celeste, cravatta regimental e scarpe di pelle nere.
E’ incazzato nero. Tira una raffica di madonne in dialetto veneto. Era ora che apriste! e via con le madonne. Sono anni che aspetto! e via con i cristi.
Sempre rigorosamente in veneto.
Mio padre parlava sempre in italiano. Il dialetto veneto era riservato per le bestemmie. Non riusciva a tradurle dal veneto. La coloritura del dialetto si perde nella traduzione e l’effetto scenico della bestemmia perde di smalto.
Restiamo tutti a bocca aperta. Prima che pronunciassimo qualche frase lui chiede chi siamo e cosa facciamo li.
Provo a balbettare qualcosa ma lui mi interrompe e mi chiede chi sono.
Come, cazzo babbo sono io.
Quel giorno di trentacinque anni prima avevo la barba, i capelli lunghi, molto lunghi, ancora prevalentemente neri senza segni di calvizie e solo trentacinque anni di età.
Oggi io e mio padre siamo quasi coetanei. Quindi non mi ascolta neppure. Non può credere che un coetaneo possa essere suo figlio.
Allora sto al gioco, abbandono il tu e passo al lei.
Gli chiedo di cosa ha bisogno. Mi risponde che vuole fare quattro passi. È da troppo tempo fermo. Magari arrivare sino in via Sant’Isaia dove ha abitato per quarant’anni.
Così ci incamminiamo lungo via Andrea Costa.
La prima cosa che lo colpisce sono gli scooter. Nell’83 non c’erano, al massimo si girava in Vespa. Ma una Vespa sta ad uno scooterone come una zanzara sta ad un calabrone.
Poi si ferma e guarda lo Stadio con quell’impalcatura metallica che sembra un ponteggio provvisorio che regge la scalinata aggiuntiva fatta per i mondiali del 90. Lui si ricordava il giorno della partita con l’Argentina nei mondiali del 34. Questo coso con i ponteggi gli fa schifo.
Mi chiede quanti posti a sedere ci sono. Trentasei mila, sig. Bruno. Mi risponde piccato, ma se erano trent’otto mila negli anni 30, che cosa è successo? Avete rovinato l’estetica per aggiungere delle scalinate e la capienza invece di crescere è diminuita? Non capisco!
Non rispondo ma effettivamente non capisco neppure io. E non capisco neppure mio padre. Trentacinque anni fa era un poco indemenzialito, oggi invece è lucidissimo.
Continuiamo a camminare lungo via Andrea Costa. Si accorge che non c’è più il cinema Olimpia. E non c’è più il bar con la sala biliardo!
Arrivati in Sant’Isaia non trova più le botteghe di riferimento.
Non c’è più il ciabattino.
Non c’è più l’elettricista.
Non c’è più il fontaniere.
Non c’è più il materassaio.
Non c’è più il droghiere.
Non c’è più la macelleria di carne equina.
Non ci sono più tre fornai.
Non ci sono più tre latterie.
Non c’è più il salumiere.
Non ci sono più tre barbieri.
Non c’è più il negozio di elettrodomestici.
Non ci sono più tre fruttivendoli.
Non c’è più il chiosco che vendeva banane.
Non ci sono più due vinai.
Al loro posto in quei cento metri di strada ci sono molte serrande abbassate e qualche negozio di scarpe, vestiti di bassa qualità, chincaglierie varie, oggettistica da regalo.
Mio padre si fa cupo.
Proseguiamo verso il centro.
Ad un certo punto mi chiede informazioni sull’effetto della chiusura dei manicomi. Li in via Sant’Isaia al numero 90 c’era l’ospedale psichiatrico Roncati. Nell’83 la legge Basaglia sul superamento dei manicomi era in via di attuazione.
La domanda mi viene posta quando incrociamo la quindicesima persona che parla da sola e gesticola.
Mi affretto a dirgli, No sig. Bruno. Non sono matti. Non parlano da soli, parlano al telefono.
Così gli mostro il cellulare. Dice solo … Che bello.
Ma poi subito dopo aggiunge, ma perché tutti lo guardano mentre camminano?
Qui cerco di spiegare internet, Facebook, whatsApp, selfi ma non mi segue.
Un telefono che scrive, che riceve notizie, scatta foto, mostra video è una realtà fuori dalla sua portata.
In fondo quando è nato in casa non c’era l’energia elettrica e l’acqua la prendevi dal pozzo.
Anche se è un miracolato non si può pretendere troppo.
Non insisto nelle spiegazioni. Ogni parola aggiunge angoscia nel suo sguardo.
Arrivati in via Ugo Bassi mio padre resuscitato non trova i negozi di riferimento. Faceva il sarto.
Non trova il negozio di stoffe e il merciaio che gli forniva i cotoni e la virgolina. In una traversa di via Monte Grappa cerca e non trova il negozio che forniva le fodere e i crini. Non trova il negozio dei bottoni. Non trova i negozi di moda maschile che gli mandavano i clienti.
Con un certo grado di sollievo trova ancora al suo posto il negozio di moda e tessuti inglesi De Paz.
Ma il suo sollievo dura pochi attimi.
Arriviamo in via Indipendenza, incrociamo decine di uomini con i bermuda e le scarpe da tennis.
I pochi che vestono la giacca hanno per pantaloni dei blue-jeans e ai piedi le scarpe da tennis. Jeans e scarpe da tennis per un sarto stanno come il diavolo con l’acqua santa.
I giovani hanno pantaloni con il cavallo sino al ginocchio, in cintura si vedono le mutande, sono tutti vestiti uguali, cioè per i suoi occhi da sarto sono tutti vestiti male. Molto male. Malissimo.
Dopo l’assenza di cinema, del bar con il bigliardo, dei negozi alimentari, dei negozi di riferimento della sua professione, dopo aver visto le magie dei telefonini e lo sconcerto di un telefono che fa fotografie, alla vista in via Indipendenza di quella moltitudine di uomini in bermuda mio padre non ha retto.
È resuscitato dentro un incubo.
Mio padre mi ha chiesto di tornare indietro e di riaccompagnarlo in Certosa.
Sono prima passato dagli uffici della Certosa e ho rinnovato la licenza del tombino per altri 25 anni.
Mi è costata una cifra ma non credo di aver mai speso i miei sodi meglio di così.

Roberto Toninello

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